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domenica 19 maggio 2019

COME SCOPPIO' LA II GUERRA MONDIALE - Palmiro B. Boschesi

Maggio 2019 - ...

"Il Duce - scrive Ciano nel diario - è più che mai covinto della necessità di ritardare il conflitto. Tiene molto a che io provi ai tedeschi, documenti alla mano, che lo scatenare una guerra adesso sarebbe una follia" (p.6). 
Non perché la guerra sia essa stessa una follia, bensì perché Mussolini era consapevole della inadeguata preparazione bellica. 
"Prima di lasciarmi, comanda ancora ch'io faccia presente ai tedeschi che bisogna evitare il conflitto con la Polonia, perché ormai è impossibile localizzarlo e una guerra generale sarebbe per tutti disastrosa" (p.6)

"Torno a Roma disgustato della Germania, dei suoi Capi, del loro modo d'agire. Ci hanno ingannato e mentito. E oggi stanno per tirarci in un'avventura che non abbiamo voluta e che può compromettere il Regime e il paese" (p.22)

Un vecchio testo, una monografia sullo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Uno di quei testi che giacciono su uno scaffale per decenni, in attesa di essere presi in mano, consultati se non letti, e che improvvisamente assumono carattere di attualità.




Arnoldo Mondadori Editore, 1974.

domenica 27 agosto 2017

IL CONDOMINIO - James Graham Ballard

Metafora della "tragedia del bene comune", un grattacielo come organismo vivente, con i propri abitanti tanto assurdi quanto normali.
Una inquietante allegoria che descrive in modo disincantato l'organizzazione sociale. 

L'isolamento dall'esterno, a testimoniare la depressione dell'edificio, il degrado e la violenza in un corpo moderno, studiato e realizzato all'insegna dell'efficienza e della funzionalità,  che non sa tenere a bada i suoi demoni e che anzi ne asseconda ed amplifica i peggiori istinti distruttivi. 


Distruggere sé stessi per annientare l'altro. 
Un paradosso quotidiano. 

"In futuro la violenza sarebbe certo divenuta un valido collante sociale". 

"Nessuno, nemmeno ai piani più alti, sembrava accorgersi del contrasto fra la gran classe dei partecipanti alle feste e lo stato di cadente abbandono dell'edificio."

"[...] compiaciuto da tali contrasti, che mostravano quanto quei civili e boriosi professionisti, uomini e donne, si stessero allontanando da ogni nozione di comportamento razionale. [...]"

"Nonostante ciò, prima di partire insistettero con Wilder perché inventasse un crimine ancora più sinistro, come se proprio la natura immaginaria delle trasgressioni [...] costituisse l'essenza del loro fascino. Nella logica del grattacielo le trasgressioni più innocenti diventavano le più colpevoli."

Storia surreale e opprimente, lettura non troppo scorrevole, pesante e assurda la trama, sospesa la conclusione; è comunque un romanzo che si legge fino in fondo.
Non si può fare a meno di pensare al destino di un Pianeta abitato da persone dalle alte pretese personali, eppure incapaci di prendersi davvero cura di sé, incapaci di comprendere che l'attenzione all'altro, il rispetto per le persone, gli artefatti e l'ambiente sono necessari presupposti per garantirsi un benessere reale e duraturo. 
Incapaci di realizzare che ciò che non è privato non è di nessuno, bensì di tutti, e che è compito di ciascuno occuparsene, per il proprio tornaconto, oltre che per quello altrui.
Il tragico destino del bene comune.

mercoledì 21 settembre 2016

ORIANA FALLACI INTERVISTA ORIANA FALLACI - Oriana Fallaci

La Fallaci intervista sé stessa, con la morte addosso
Poche pagine, che si leggono in modo rapido e scorrevole, nonostante i temi affrontati non siano di poco conto. Lo stile aggressivo e deciso è inconfondibile. 

Parole strumentalizzate e strumentalizzabili, parole durissime. Contenuti non sempre azzeccati, ma su cui vale la pena riflettere. 
Salta all'occhio, se l'occhio è attento, uno slittamento entro quelle gabbie, quelle bandiere, quel tifo da squadra che lei per prima denuncia, smaschera, condanna, nel raccontare di schieramenti e fazioni. 
Ma non si può non cogliere ed apprezzare la ricerca e difesa della propria libertà intellettuale, la personalità rivoluzionaria, la decisione con cui questa persona affronta la vita e la morte. La propria morte imminente. 

"Perché ho la morte addosso. La Medicina ha sentenziato: "Signora, Lei non può guarire. Non guarirà" Stando a quel verdetto, e nonostante gli anticorpi del cervello, non ho molto rempo da vivere. Però ho ancora tante cose da dire, e un'intervista m'è parsa il mezzo più sbrigativo per dirne almeno alcune"

Il cancro:
"No, no, di lui parlo sempre. Apertamente, con tutti. Ne parlo anche per rompere il tabù di cui divenni consapevole quando lui mi aggredì la prima volta, e il chirurgo che mi aveva operato disse: "Le dò un consiglio. Non ne parli con nessuno". Rimasi allibita. E così offesa che non ebbi la forza di repilicare: "Che cosa va farneticando?!? Avere il cancro non è mica una colpa, non è mica una vergogna! Non è nemmeno un imbarazzo, visto che si tratta d'una malattia non contagiosa" E per settimane continuai a rimuginre su quelle parole che non comprendevo. Poi le compresi. Perché se dicevo d'avere il cancro molti mi guardavano come se avessi la peste [...]. O come se fossi già sottoterra. Impauriti, disturbati. Quasi ostili. Alcuni mi toglievano addirittura il saluto. Voglio dire: sparivano, e se li cercavo non si facevan trovare. Infatti fu allora che coniai il termine Alieno. [...]
 ... di rado lo chiamano con il suo vero nome. I giornali ad esempio dicono "malattia inguaribile"[...] Questo perpetua il tabù, e quasi ciò non bastasse, alimenta una menzogna. Perdio, non è vero che dal cancro non si guarisce! Spesso si guarisce. E se non si guarisce, si dura. Col mio sono durata circa undici anni. "

La democrazia
"Guardi, io non mi stancherò mai di ripeterlo: la democrazia non si può regalare come una scatoletta di cioccolata. La democrazia bisogna conquistarsela, e per conquistarsela bisogna volerla. Per volerla bisogna sapere e capire cos'é."

[...] i limiti e le bugie della democrazia. Non vi sono alternative alla democrazia. Se si rinuncia a quella, se muore quella, la libertà va a farsi friggere e come minimo ci ritroviamo in un gulag o in un lager o in una foiba. Insomma, in prigione o sottoterra. Ma quando ci riempiamo la bocca con la parola Democrazia sappiamo bene che la democrazia fa acqua da tutte le parti. Sappiamo bene che è un sistema disperatamente imperfetto e sotto alcuni aspetti bugiardo. [...]
Sono due, dice Tocqueville, i concetti su cui si basa la democrazia: il concetto di Uguaglianza e il concetto di Libertà. Ma gli esseri umani amano l'uguaglianza assai più della libertà, e della libertà spesso non gliene importa un bel nulla. Costa troppi sacrifici, troppa disciplina, e non è forse vero che si può essere uguali anche in stato di schiavitù?
Quasi ciò non bastasse, il concetto di uguaglianza non lo comprendono. O fingono di non comprenderlo. Per Uguaglianza la democrazia intende l'uguaglianza giuridica, l'uguaglianza che deriva dal sacro principio "La Legge E' Uguale per Tutti". Non l'uguaglianza mentale e morale. l'uguaglianza di valore e di merito. Non il pari merito d'una persona intelligente e d'una persona stupida, il pari valore d'una persona onesta e d'una persona disonesta. Quel tipo di uguaglianza non esiste. [...]
Il guaio è che la democrazia aiuta gli ignoranti e i presuntuosi a negare questa verità, questa evidenza. Li aiuta col voto che si conta ma non si pesa, cioè col suo affidarsi alla quantità non alla qualità [...]"

Rivoluzione e Scienza
"Il fatto è che contrariamente a loro, io sono una rivoluzionaria. Del mondo che mi circonda non mi va bene nulla fuorché le conquiste della Scienza. Non mi va bene nemmeno il suo concetto di rivoluzione. La Rivoluzione per me [...] La Rivoluzione per me è la metamorfosi del baco che senza far male a nessuno diventa farfalla. Una bellissima farfalla. E vola. Infatti io sogno sempre di volare. Come una farfalla anzi come un uccello". 

La morte
"Mi dispiace morire, sì. [...]
Amo troppo la Vita, mi spiego? Sono troppo convinta che la Vita sia bella anche quando è brutta [...]
E con la stessa passione odio la Morte. La odio più d'una persona da odiare, e verso chi ne ha il culto provo un profondo disprezzo. [...] Il fatto è che pur conoscendola bene, la Morte io non la capisco. Capisco soltanto che fa parte della Vita e che senza lo spreco che chiamo Morte non ci sarebbe la Vita."


sabato 17 settembre 2016

LA BANALITA' DEL MALE - Hannah Arendt

Lucido e razionale il resoconto di Hannah Arendt del processo ad Eichmann a Gerusalemme.
Non si tratta di un processo ordinario, non ha nulla di "normale".
Appare evidente che non si tratta del processo ad una persona che si è resa complice di un crimine orrendo, una vera e propria carneficina, ma è il processo a un'idea astratta, l'antisemitismo. 

Evidenzia irregolarità, stranezze, superficialità, anomalie sia nella lettura dei documenti che nell'ascolto dei testimoni. Sottolinea presenze e assenze.

Testimonianza apparentemente fredda e molto articolata, quella di Arendt. Agghiacciante la semplicità nel racconto di fatti impensabili eppure accaduti. 
Un saggio estremamente interessante, per comprendere il passato e una buona parte dell'attuale presente.

Quando l'attenzione in un processo si sposta dal particolare all'astratto, dai fatti concreti alle ideologie, dai crimini commessi al desiderio di riscatto che assomiglia alla vendetta, il risultato è scadente.
Un pessimo processo, nessuna analisi costruttiva le cui conclusioni possano sostituire le basi per un cambiamento di rotta. 
L'antisemitismo è protagonista, non il valore della vita umana. 

Dalle leggi razziali, l'imposizione della croce gialla, primo passo apparentemente innocuo ma che in sé segnava il destino di coloro che la portavano, alla "soluzione finale", lo sterminio di tutti gli ebrei, sembra esista una distanza incolmabile.
I fatti dimostrano che è breve, brevissimo, il tratto che separa la discriminazione dalla violenza più atroce.

"Perché non vi ribellaste?"
[...]
"Ma la verità vera era che sia sul piano locale che su quello internazionale c'erano state comunità ebraiche, partiti ebraici, organizzazioni assistenziali. Ovunque c'erano ebrei, c'erano stati capi ebraici riconosciuti e questi capi, quasi senza eccezioni, avevano collaborato con i nazisti, in un modo o nell'altro, per una ragione o per l'altra. La verità vera era che se il popolo ebraico fosse stato realmente disorganizzato e senza capi, dappertutto ci sarebbe stato caos e disperazione, ma le vittime non sarebbero state quasi sei milioni".

"Ché la lezione di quegli episodi è semplice e alla portata di tutti. Sul piano politico, essi insegnano che sotto il terrore la maggioranza di sottomette, ma qualcuno no, così come la soluzione finale insegna che certe cose potevano accadere in quasi tutti in paesi, ma non accaddero in tutti. Sul piano umano, insegnano che se una cosa si può ragionevolmente pretendere, questa è che sul nostro pianete resti un posto ove sia possibile l'umana convivenza".

Dichiara tra l'altro Eichmann che "I giudici non l'avevano capito: lui non aveva mai odiato gli ebrei, non aveva mai voluto lo sterminio di esseri umani. La sua colpa veniva dall'obbedienza, che è sempre stata esaltata come una virtù. Di questa virtù i capi nazisti avevano abusato, ma lui non aveva mai fatto parte della cricca al potere ..."

Ogni guerra è criminale.
"La verità è infatti che alla fine della seconda guerra mondiale tutti sapevano che i progressi tecnici compiuti nella fabbricazione delle arimi rendevano ormai "criminale" qualsiasi guerra. Proprio la distinzione tra soldati e civili, tra esercito e popolazione, tra obiettivi militari e città aperte, su cui si fondavano le definizioni che dei crimini di guerra aveva dato la convenzione dell'Aja, proprio quella distinzione era ormai antiquata".

martedì 30 agosto 2016

I FUOCHI DELL'AUTUNNO - Irène Némirovsky

Intenso e disincantato romanzo.
Piccola borghesia francese, 1912. I progetti di vita di ragazzi vengono spazzati via o trasformati in sogni di eroismo nel 1914.
La Grande Guerra uccide, oppure cambia le persone. L'orrore senza mediazione sostituisce gli ideali con la rassegnazione, il cinismo, l'illusione di un riscatto facile, di scorciatoie verso un successo vacuo. 
Tra le due guerre Bernard, giovane tornato vivo ma corrotto dalla prima segue divertimento, piacere, denaro.
Thérèse, sua amica di infanzia, rimane lontana dal delirio di potere e dissolutezza che riconosce attorno a sé, e diventa il suo punto di riferimento, amato e nel contempo odiato approdo sicuro. 
Una nuova guerra, una nuova partenza verso un futuro che sa essere spietato e inutile. Verso una sconfitta prevista e preparata negli anni precedenti da chi aveva accantonato ogni scrupolo, ogni desiderio di costruire un futuro solido per sé e la propria Nazione, rinunciando a qualsiasi principio morale ed etico per rincorrere il successo facile. 
Azioni sconsiderate che si ritorcono contro un'intera Nazione. 
Una guerra che uccide, cambia, divide, a volte ricongiunge nel dolore. 

Attualissimo questo romanzo scritto nel tra il 1941 e il 1942 dall'autrice deportata pochi mesi dopo e quasi subito uccisa ad Auschwitz, e pubblicato postumo. 
Con sgomento si sente che potrebbero essere state scritte oggi molte delle parole che vi si leggono.  

"Ma questa p l'ultima. E poi sapete che non è una guerra come le altre. E' una guerra per la pace. E' una cosa ammirevole, che non s'è mai vista" (1914)

"E' questa la cosa grave. Eravamo uomini. E dal momento che non possiamo diventare macchine e non siamo più uomini, ci sentiamo regredire fino a tornare selvaggi, animali. Com'è che dicono? - Non serve a niente cercare di capire. Bisogna non pensarci - Bisogna abbruttirsi, insomma!" Bisogna tendere a questo" disse a sé stesso [...] . 

"I tedeschi avanzavano ancora. Era la guerra. Questa enorme ferita sul corpo del mondo aveva fatto colare fiumi di sangue generoso. A quel punto si poteva già indovinare che quella ferita non sarebbe guarita facilmente e che la cicatrice non sarebbe stata certo bella".

"Hanno democraticizzato il vizio e standardizzato la corruzione. Tutti sono diventati furbastri, truffatori, profittatori. E poi ... un ingorgo nel quale i colpevoli soffrono proprio come tutti gli altri. C'è una sorta di amara e ironica giustizia in tutto quel che sta accadendo. E' ironico e terribile". 

"Ciascuno di noi, all'improvviso, si ritrova ad avere un solo compagno, sé stesso"



lunedì 9 maggio 2016

PARIS KEBAB - Marco Trucco

Un romanzo crudo, trama attualissima.
Protagonista e narratore è un ragazzo, un giovane fratello islamico. Allontanato dallla famiglia ancora bambino, lascia il Marocco. Viene raccolto e protetto ad Algeri da un Imam, che dopo averlo istruito lo invia in Francia.
Raggiunge Parigi, giovane adulto duro e deciso, ingenuo e sprovveduto.

Protagonista di questo lucido ed intenso romanzo è anche la guerra totale dell'Islam, con la sua "organizzazione internazionale [...] al di sopra degli Stati e delle Istituzioni".
Una guerra spietata, come tutte le Guerre, ma diversa nelle modalità di azione, perché l'esercito di questo Stato si muove nell'ombra, mescolandosi alla gente comune, in tutto il Mondo.
Una guerra con le sue ragioni e le sue contraddizioni, i suoi pretesti che servono a convincere e reclutare la truppa. Ed i suoi generali e strateghi che non si sporcano le mani e una coscienza non ce l'hanno.
Vittime e carnefici si sovrappongono fino a coincidere, e rappresentano due facce di una stessa medaglia, due volti di una stessa persona. 

Narrazione impietosa e distaccata, che coglie la molteplicità di sentimenti che muovono le persone. Interessante il punto di vista di un giovane islamico a Parigi, che vive e fa rivivere la sua storia passata e presente. Interessanti le sue ingenue riflessioni, le sue spinte emotive e concrete.

Questo racconto a cavallo tra realtà e fantasia propone a chi legge una riflessione sulle motivazioni e le spinte che inducono i singoli ad agire per conto proprio o di altri, apre interrogativi sul rapporto tra l'individuo e l'organizzazione, lo Stato, la comunità cui appartiene o sente di appartenere. 
E' interessante da questo punto di vista. 

"Lungo la strada non facevo altro che pensare [...] al valore che hanno gli affetti se sull'altro piatto della bilancia si pesano denaro e benessere".

"E' sorprendente come si cerchi nel disagio ciò che al contrario è organizzazione e metodo. I margini della società per gli occidentali sono il seme della morte; lo sconosciuto, uno spettro. Nella familiarità non guardano, non vedono grazie al velo di Allah.
Ci vorrà molto tempo prima che capiscano che bisogna alzare lo sguardo e guardare dritto negli occhi quelli che sembrano porci come loro."

"Quando non capisci e tutto ti precipita attorno, stai veramente male. Ti viene da impazzire, il tuo cervello vuole andarsene, non è un grado di comprendere il perché di tutto ciò che ti sta succedendo".  

"Cosa vuoi raccontare! Siete tutti uguali, parlate di pace e uccidete per il denato e il potere. Bush e Bin Laden dicono la stessa cosa, vogliono eliminare il male nel mondo. Cos'è il male se non l'uomo che compie gesti efferati nei confronti di un altro uomo?"

"Cosa resta di noi, se non il ricordo di ciò che siamo sembrati agli altri? Ideali, religione, pelle e sapere sono solo dettagli che ci paiono montagne e costruiscono il concetto di differenza tra uomo e uomo." 

"Comprendeva come fosse necessario offrire qualcuno da odiare. Doveva cercare di dare un nemico da combattere ai media [...]"
 
Il male che genera male, in un circolo vizioso per interrompere il quale serve un punto di vista diverso, una chiave di lettura completamente nuova. Che sembra non voler essere cercata. 

Qualche refuso nel testo, qualche errore di stampa, che non impedisce comunque di apprezzarlo. 

Un romanzo di piacevole e scorrevole lettura, nonostante e forse proprio per, il contenuto non facile da affrontare.








martedì 3 maggio 2016

INSCIALLAH - Oriana Fallaci

Pesante, questo romanzo. Pesante e duro, eppure molto bello.
L'assurdità della guerra, che è tale anche se camuffata da "operazione di pace".

La Fallaci si beffa di chi la guerra la fa, i suoi soldati sono caricature, sono goffi, sono ridicoli, sono sanguinari, sono sciocchi, sono strateghi, e sono tremendamente umani. 

I soldati odiano la guerra.
I soldati amano la guerra.
Uomini raccontati attraverso la guerra. 

Che dire di questo romanzo. Faticosa la lettura, soprattutto quando i personaggi si esprimono in lingue diverse, compresi diversi dialetti italiani, e pure in latino, e di seguito Fallaci traduce. Difficile seguire il corso dei pensieri di questi personaggi che sono insieme reali e inventati.

Eppure è un libro che si legge volentieri, che non si vuole lasciare a metà. 

Il contingente italiano in Libano, è a Beirut ufficialmente per una "missione di pace". Ma è un nome che si da agli interventi militari per non spaventare i soldati, le loro famiglie, per tenere quieta l'opinione pubblica. Missione di pace.
Andiamo, armati fino ai denti, a portare la pace. E quanto stupore, quando si scopre di essere invece in piena guerra. Con il richio concreto di non tornare a casa vivi.

"La prossima guerra non sarebbe scoppiata tra ricchi e poveri: sarebbe scoppiata tra guelfi e ghibellini cioè tra  chi mangia carne di maiale e chi non la mangia, chi beve il vino e chi non lo beve, chi biascica il Pater Noster e chi frigna l'Allah russillallà" - Pistoia, si torna alle Crociate, Pistoia, borbottava sempre Gassàn. E a volte aggiungeva - O ci siamo già tornati?

"Se hai il cuore a pezzi e sei così disperato che non ti riesce aprir bocca, invece, non se ne accorgon neanche. Eppure il dolore dell'anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle provocate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare".

"Gli era parsa così irreale la frase siamo-alla-guerra-qui. Perchè malgrado i film sul Vietnam e i giornali e i mesi di addestramento in caserma, non riusciva cogliere il significto della parola guerra. Non riusciva a capire che roba fosse. Stanotte sì, invece. Poteva dirlo che roba è. E' una malattia che sciupa dentro, un cancro che si mangia il cuore, una lebbra che imputridisce l'anima e induce la gente a far cose che in pace non farebbe mai". 

Un impietoso racconto che attraverso personaggi e comparse fornisce uno spaccato della vita alla guerra. Una descrizione della stupidità umana, dell'inutilità dell'essere e dell'amare di fronte all'inganno, la rabbia, l'odio cieco.
Con la sua proverbiale durezza l'autrice ricorda che la guerra è un gioco stupido e assurdo, dalla quale non si esce vincitori mai. 



mercoledì 22 luglio 2015

LA RABBIA E L'ORGOGLIO - Oriana Fallaci

Quanta rabbia! Quanta indignazione. 
Un fiume di parole che trascinano. Una grande scrittrice. Una grande donna. 
Pur non condividendo appieno il suo punto di vista, non si può non ammirare la carica, lo stile, la preparazione e la forza di questa giornalista nata nel 1929. 

Libro di cui avevo sentito parlare molto, che ho visto in troppe occasioni citato a sproposito. Finalmente l'ho letto. E ne ho apprezzato molti aspetti. 

Un'interpretazione che forse l'autrice non condividerebbe, che non può contestare e che probabilmente non leggerebbe nemmeno, se fosse ancora viva. 
Non è, come molti sostengono, un manifesto della "Destra" più estrema. Condanna senza appello Fascismo e Nazismo, condanna i totalitarismi, tout court.
Nè si fa portavoce di un "cristianesimo" opposto all'estremismo islamico.
La Fallaci si dice atea, "irrimediabilmente atea".

Con toni feroci e travolgente furore, la Fallaci si scaglia contro chi non vuole comprendere che la guerra iniziata con gli attentati dell' 11 settembre è seria, pericolosa e "globale". 
Non ne fa una questione di razza, di colore, di patriottismo cieco (anche se inneggia ed ammira il senso di appartenenza che è degli Americani e che manca del tutto agli Italiani), con buona pace di coloro che pretendono di usare anche queste sue parole per giustificare violenza e xenofobia. 

Si scaglia contro il mondo musulmano, affermando che non esiste un islamismo moderato. 

"Al mondo c'è posto per tutti. A casa propria tutti fanno ciò che gli pare. E se in alcuni paesi le donne son così cretine da accettare il chador anzi il lenzuolo da cui si guarda attraverso una fitta rete posta all'altezza degli occhi, peggio per loro. Se sono così scimunite da accettare di non andar a scuola, non andar dal tottore, non farsi fotografare eccetera, lo stesso. Se sono così minchione da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli più un harem pieno di concubine, idem. Se i loro uomino sono così grulli da non bere la birra e il vino, pure. Non sarò io ad impedirglielo. Sono stata educata nel concetto di libertà, io ... "

Leggendo queste parole viene spontaneo alzare un sopracciglio, pensare che questa grande giornalista forse è un po' tropo piena di sé per guardare alla realtà con occhio serenamente critico.
Ma poche pagine oltre, racconta dell'esecuzione di tre donne, coperte da capo a piedi così da non sembrare nemmeno degli esseri umani, giustiziate senza pietà di fronte a testimoni indifferenti. 
E scrive: 
"Rammento e capisco che le tre donne al mercato sono state uccise perché erano andate dal parrucchiere. Capisco insomma che si trattava di tre combattenti, di tre eroine, e dimmi: è questa la cultura cui alludi quando parli solo di contrasto fra le due culture? Eh, no, caro mio: no. Distratta dal mio amore per la Libertà ho incominciato il discorso affermando che al mondo c'è posto per tutti e mia madre diceva il-mondo-è-bello-perché-è-vario. Che se alcune donne sono così sceme da accettar certe infamie, peggio per loro: l'importante-è-che-certe-infamie-non-vengano-imposte-a-me. Ma ho detto una cosa ingiusta. Perché a far quel ragionamento ho dimenticato che la Libertà scissa dalla Giustizia è una mezza libertà, che difendere la propria libertà e basta è un'offesa alla Giustizia. E implorando il perdono delle tre eroine, di tutte le donne giustiziate seviziate umiliate o sviate dai figli di Allah, sviate al punto di unirsi al corteo che calpestava i morti dello stadio di Dacca, dichiaro che la faccenda mi riguarda eccome."

Dura, la Fallaci. Durissima.
La storia non può essere cancellata, dice.
"E sempre a proposito di chi finge di ignorarla o dimenticarla: non lo rammenta nessuno l'ammonimento di Karl Marx "La religione è l'oppio dei popoli?" Non ne tiene conto nessuno del fatto che tutti i paesi islamici, tutti, sono retti da un feroce regime teocratico?"

Ne ha per tutti, la Fallaci. 
Tuona contro l'incoerenza, l'opportunismo, l'ottusità de(gl)i  (ex) comunisti che tradiscono le idee per gli slogan, che difendono a spada tratta qualsiasi azione pur di non ragionare. Ruggisce contro i Governi italiani che si dimostrano incapaci, incompetenti, corrotti ed inadeguati. Sempre, in tutto. 

"Discorsino. Egregio signor cavaliere, io lo so che a udire quel che dico sugli ex-comunisti Lei ingrassa, gongola, come una sposa felice. Ma non sia ipaziente, La prego. Ce n'è anche per Lei. [...] E premesso ciò mi consenta (uso il Suo linguaggio, vede) d'esporre quel che in Lei non mi piace. Bè, non mi piace, ad esempio, la Sua mancanza di buon gusto e d'acume. [...]" 

"La disobbedienza civile è una cosa seria, non un pretesto per divertirsi e far carriera. Il benessere è una conquista della civiltà, non un pretesto per vivere a sbafo"

Un'invettiva gridata, scritta tutta d'un fiato che tutta d'un fiato si legge. 
E pur non condividendo in tutto e per tutto i contenuti di questa raccolta di appunti, di questo "articolo lungo", di questo discorso della Fallaci, non si può non apprezzarne la franchezza, la passione. 
E molte delle idee. Libertà, indipendenza, condanna di tutti i totalitarismi, dei fascismi rossi e neri, diritti umani. E necessità di uno Stato veramente laico. 
Perché di Religione si muore. Anche se alcune pratiche sono meno peggio di altre. E anche su questo non si può onestamente non essere d'accordo.

Chiude il libro il discorso che la Fallaci ha tenuto nel 2002 a Washington. Dopo 10 anni di assenza, ancora non intende presentarsi in pubblico.
"E il motivo non è quello malignamente fornito da chi non mi vuol bene: la malattia che chiamo l'Alieno, le mie rughe, l'età. L'Alieno lo tengo a bada. Gli ho fatto capire che se mi uccide muore con me, che quindi è meglio vivere con me. E per quanto vivere con me sia arduo, per ora ci sta. Le rughe sono le mie medaglie. Onorificenze che mi son guadagnata. E invecchiare è bellissimo. Perché, come
uso dire, a invecchiare si conquista una libertà che da giovani non avevamo. Una libertà assoluta. Data l'alternativa, inoltre, aver quest'età è la cosa migliore che potesse capitarmi. Che possa capitare a tutti". 
Ammirazione genuina. 

Libro da leggere. E su cui riflettere. Indubbiamente.


mercoledì 12 novembre 2014

IL TORTO DEL SOLDATO - Erri De Luca

Un altro breve, delicatissimo romanzo di Erri De Luca. 
Marinaio scalatore, solitario.
Scrittore.

Due storie che si intrecciano, lo sfondo della Seconda Guerra Mondiale. 
Un criminale di guerra convinto del valore della propria missione, che dal suo punto di vista non ha avuto nulla di atroce.

Un tocco di "magia", o forse pù una profezia che si autoavvera. 

Un romanzo coinvolgente, si legge in poco tempo, lascia un sapore dolce ed amaro, come spesso i libri di De Luca sanno fare.
La trama va lasciata leggere, non può essere raccontata. 
Ecco, come di consueto, qualche frammento di testo.

"Mi pesa invece la disperazione di un uomo che aveva un pozzo di inchiostro da intingere e gli fu sigillato con un pezzo di piombo nel cervello".

"Chiamavano Aussiedlung, "trasferimento", l'invio nei treni blindati ai campi di annientamento. Spacciavano vocabolario falso a copertura. I poteri lo fanno e spetta agli scrittori restituire il nome delle cose."

"Personalmente non riconosco niente di puro nella verità. La vedo nel crollo di una negazione, nell'entrata delle truppe sovietiche nel campo di strage di Treblinka. Non è una scoperta, ma la scoperchiatura dell'infamia. La vedo nella decomposizione di una menzogna, fertile per questo. La vedo nella muffa che insegnò la penicillina a Fleming".


"Il torto del soldato è la sconfitta. La vittoria giustifica tutto".
[...]
"Se le cose stanno come dice lui, il torto del soldato è l'obbedienza"

"E' stata un casellario giudiziario, la storia, una sequenza di crimini."

giovedì 3 luglio 2008

IL SERGENTE NELLA NEVE - Mario Rigoni Stern

E' il 1943. Sulle rive di un Don congelato una domanda: "Ghe rivarem a baita"? Un ragazzo di 22 anni è tra i pochi che ritornano, tra decine di migliaia di morti. E racconta. Di neve, di freddo, di vento, di steppa gelata, di infiniti passi nel niente, di spari, di sangue, di fame e paura. Con un realismo semplice e secco. Così è. Questo è stato.
In una guerra che non gli appartiene, voluta da due deficienti capaci di impartire ordini assurdi e sciagurati (peraltro obbediti!) dalle comode e calde stanze di Roma e Berlino.
22 anni. A piedi. In Russia. In inverno. Verso la baita di Asiago. In un deserto di ghiaccio dove sopravvive grazie al calore delle isbe (case) ed al cibo che gli viene offerto da quelle persone che dovrebbero essere il "nemico", il popolo invaso.
"Corro e busso alla porta di un'isba. Entro.
Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz'aria. - Mnié khocetsia iestj, - dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C'è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d'ogni mia boccata. - Spaziba, - dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. - Pasausta, - mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell'ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco.
Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev'esservi stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell'isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i mambini un'armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di più del rispetto che gli animali della foresta hanno l'uno per l'altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere".
E poi ancor più il vuoto dentro. I compagni morti, la solitudine, la fatica, il dolore ...
"Questo è stato il 26 gennaio 1943. I miei più cari amici mi hanno lasciato in quel giorno".
Un racconto da leggere, da pensare, da ricordare.

domenica 11 novembre 2007

BUSKASHI - Gino Strada

BUSKASHI - Gino Strada
9 settembre 2001. Islamabad: attentato al comandante Massud, leader dell'opposizione afghana ai talebani, e buon amico di Gino Strada.
11 settembre 2001. New York: attentato al World Trade Centre.
Gino Strada racconta quei giorni (ed i mesi successivi), vissuti in prima persona nei luoghi oggetto di tanti racconti non sempre imparziali.
"... quando la Cnn, a mezzanotte ora italiana, manda in onda bagliori notturni nel cielo di Kabul, il telegiornalista si chiede in diretta: "E' già iniziata la risposta americana?". Da più di vent'anni vi sono esplosioni quasi tutte le notti, a Kabul, ma lui lo ignora, perchè la Cnn non gliele aveva mai fatte vedere."
11 settembre 2001, giorno in cui è occorso "l'incidente a quegli alti edifici a New York", per usare le parole del viceministro degli esteri dei talebani, Abdul Rahman.
Mentre tutti lasciano l'Afghanistan, compresa la Croce Rossa e le altre organizzazioni umanitarie, lo staff di Emergency cerca di varcare il confine, nonostante difficoltà burocratiche, orografiche ed ... esplosive!
Una perla di informazione, una preziosa testimonianza "di prima mano" sui fatti che i mass media mondiali hanno presentato in modo ben diverso (la controinformazione è quella divulgata dalle fonti ufficiali, purtroppo!).
"La guerra attorno a noi, anche quella che non vediamo e che Najibullah ci racconta ogni giorno, non assomiglia per niente a ciò che tramettono le reti televisive."
"Jaweed ha vent'anni e porta ancora sul volto i segni delle schegge. "Presto, presto! Tutti in casa!" aveva urlato alla famiglia, mentre cercavano rifugio durante un attacco aereo. Lui, il fratello maggiore, era rimasto fuori, l'ultimo, perché tutti fossero al sicuro. Un'altra bomba ha polverizzato la casa di Jaweed. Dentro c'erano suo padre e sua madre, le cinque sorelle e i due fratelli. Tutti morti. La sorella più piccola si chiamava Fahima, e aveva cinque anni.
I parlamentari italiani, il novantadue per cento di loro, hanno dichiarato guerra all'Afghanistan. Il Parlamento ha votato contro la nostra Costituzione, che "ripudia la guerra".
Hanno scelto la guerra, ancora una volta, hanno deciso che sta loro bene che si uccida.
Mi dicono che per qualcuno è stata una decisione sofferta. Vedremo di farlo sapere a Jaweed, magari deciderà di inviare messaggi di solidarietà ai sofferenti tra i nostri politici."
Ironico e pungente, Gino Strada racconta con il suo linguaggio semplice e diretto la tragedia della guerra. Oltre qualsiasi ideologia.

mercoledì 23 maggio 2007

PAPPAGALLI VERDI – Gino Strada

PAPPAGALLI VERDI – Gino StradaUna giustapposizione di riflessioni, racconti brevi e scarni, resoconto di piccoli fatti che forniscono un quadro agghiacciante della condizione in cui lavora Emergency nel mondo, ma soprattutto delle situazioni al limite del comprensibile e dell’immaginabile per noi che viviamo nel troppo, nel comodo, nell’ “a portata di mano”.
Brevi descrizioni di situazioni socio-politiche in cui si consuma il solito dramma di morte, di ferite inguaribili che non intaccano solo l’anima ma anche il corpo. Straziante. Moralmente e fisicamente.
Nomi di persone che sfuggono. Ognuna delle quali ha una sua vita, una sua storia. Accomunate dal dolore, dall’impotenza, dalla morte.
Un libro che si legge a fatica, non certo per lo stile, essenziale e diretto, né per il linguaggio, semplice ed accessibile. Difficile far scorrere le parole, che feriscono e colpiscono.

Ricordi frammentati di una vita in guerra. Rare le date, puntuali i riferimenti geografici. Una guerra si sovrappone alle altre. Iraq, Etiopia, Afghanistan, Ruanda ... sembra cronaca attuale, ma si tratta di fatti avvenuti ben prima del solito 11.09.2001.

Possibile che “noi” siamo la causa di tanto orrore? Possibile che non ce ne rendiamo conto?
Come si più parlare di “missioni di pace”, di “guerre giuste”, di interventi per riportare pace e democrazia in luoghi in cui seminiamo morte, miseria, fame, terrore?
Come possiamo ancora credere che non ci sia un’alternativa?

Tra le righe la soluzione, la via per raggiungere la pace, per porre fine a questo schifo. Non la politica, non l’economia, non i giochi di potere. Partire dalle persone.
Il dialogo tra le persone, nella sofferenza. Feriti appartenenti a fazioni opposte. Vicini di letto nello stesso ospedale. L’ostilità si trasforma in familiarità. Perchè no, in affinità.
Ogni tardo pomeriggio, all’ombra, sul retro dell’ospedale, si ritroveranno in dieci o quindici, a fumare insieme, e finalmente a parlare. Fino a un mese prima si erano affrontati a colpi di mitra”.


"Pappagalli Verdi" - Gino Strada (1999)